I confini tra la Polonia e la Bielorussia sono sempre stati molto delicati, così come quelli con la Russia.

Nel 2013 ho avuto modo di toccare con mano questa tensione visitando la stazione di confine polacca di Terespol, situata a pochi chilometri da Brest, sul lato bielorusso. Già allora l'aria che si respirava non era delle migliori, pur in un contesto in cui ancora non soffiavano i venti di guerra che oggi conosciamo dopo l'invasione russa dell'Ucraina.

Il ricordo di quella giornata è legato non solo alla sensazione opprimente che si percepiva nell'impianto, caratterizzato da una quantità smisurata di recinzioni gialle – come se il colore potesse renderle meno minacciose – che delimitavano i binari e ogni area della stazione come raramente avevo visto altrove nel mondo, ma soprattutto alle misure di sicurezza messe in atto dall'esercito polacco nel breve tratto di binario che corre fino al confine, segnato dal fiume Bug.

Subito dopo la stazione di Terespol, infatti, si trova un passaggio a livello isolato, in mezzo alla campagna. Decisi di attendere lì il convoglio diretto a Minsk, ben consapevole che difficilmente avrei potuto scattare una foto.

Pochi minuti prima dell'arrivo del treno, il prato che fino ad allora era deserto si riempì di colpo di militari armati, scesi da camionette e mezzi telonati, pronti a monitorare ogni singolo movimento.

Come avevo previsto, mi fu impedito di scattare foto e mi venne intimato, con il mitra puntato, di restare all'interno dell'auto durante il transito. Solo in seguito i militari mi spiegarono che tali precauzioni servivano sia a prevenire eventuali attacchi al convoglio, sia a impedire che qualcuno potesse salire o scendere dal treno in corsa, eludendo i controlli della dogana polacca.

Non era la prima volta che mi trovavo in una situazione simile: due anni prima mi era capitato di assistere a una scena analoga nella stazione di confine di Kena, in Lituania.

Anche lì l'esercito era presente in forze in attesa di un treno passeggeri diretto a Minsk. In quell'occasione, però, assistetti a qualcosa di ancora più curioso: dal lato bielorusso arrivò un lunghissimo treno merci misto, con carri aperti carichi di carbone e carri chiusi di grande capacità, trainati da una possente 2TE10MK delle ferrovie bielorusse (BC).

Il convoglio entrò nella stazione a velocità ridottissima, percorrendo binari affiancati da alti pannelli bianchi.

Solo in seguito scoprii che si trattava di un sofisticato sistema di rilevamento pensato per individuare la presenza di clandestini o altre forme di contrabbando all'interno dei carri. Anche in questo confine, come a Terespol, i binari erano protetti da recinzioni imponenti che arrivavano fino al corso d'acqua che segna la frontiera.

Oggi, a distanza di anni, ripensando a quelle esperienze, non posso fare a meno di cogliere un significato più cupo in ciò che vidi allora.

Quelle barriere, quei controlli ossessivi, quelle armi puntate, che nel 2011 e nel 2013 mi apparivano come un eccesso di zelo, un ricordo della Guerra Fredda ormai relegata ai libri di storia, si rivelano oggi come un presagio inquietante di ciò che sarebbe accaduto. Il silenzio pesante che calava dopo il passaggio dei treni sembra ora l'eco di un conflitto latente, pronto a esplodere.

I binari che attraversano quelle terre non sono soltanto linee di collegamento: sono cicatrici profonde, segni di divisioni storiche e politiche che continuano a sanguinare.

E mentre oggi l'Ucraina è sconvolta dalla guerra e l'Europa orientale teme di rimanere in qualche modo coinvolta, mi rendo conto che ciò che avevo percepito in quelle stazioni di frontiera non era solo tensione: era l'ombra di un futuro già scritto, che stava lentamente prendendo forma davanti ai miei occhi, senza che io me ne rendessi davvero conto.

Lorenzo Pallotta